Dopo i milioni di alberi abbattuti dall’uragano Vaia, il nostro Paese deve ripensare la gestione del suo patrimonio verde. Nel segno della resilienza ai cambiamenti climatici

di Francesco Loiacono, direttore responsabile de La Nuova Ecologia

Qualcosa è cambiato, per sempre. La caduta di milioni di alberi in tutto il Nordest provocata dall’uragano Vaia, con venti che hanno soffiato nella serata del 29 ottobre oltre i 150 km/h, non lascia solamente enormi danni al settore del legno, al turismo, ai paesaggi e alla biodiversità, ma fuga ogni dubbio sui cambiamenti climatici. Ignorare la loro esistenza è ormai difficile anche per il più incallito negazionista.

A farci da guida nella lettura di quanto è accaduto è Lorenzo Ciccarese, che all’Ispra è responsabile dell’area per la difesa delle specie e degli habitat e per la gestione sostenibile dell’agricoltura e della silvicoltura e anche presidente del gruppo di lavoro vivai e piantagioni forestali dell’International union of forest research organization. «Gli abbattimenti delle foreste in Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia non sono attribuibili a mancanza di cura, perché in realtà quei boschi sono un esempio di corretta gestione. La responsabilità, in questo caso, è di un evento sì naturale ma poco normale, ciò che l’Ipcc chiama climate extreme, evento climatico estremo, per frequenza, intensità ed estensione»

Ciccarese ha fatto parte dell’Ipcc quando il Panel sui cambiamenti climatici della Nazioni unite ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2007, insieme ad Al Gore. Parla, insomma, con assoluta cognizione di causa. «Prima, uragani e trombe d’aria colpivano luoghi limitati. Quella di fine ottobre è stata una perturbazione aggressiva che ha colpito tutta la penisola. Un fatto anomalo che potrebbe ripresentarsi nei prossimi anni. È la preoccupazione scritta nel rapporto speciale presentato a inizio ottobre dall’Ipcc: finora l’aumento delle temperatura media globale è di un grado ma si corre il rischio che non si riesca a stare sotto gli 1,5 gradi, con effetti che sarebbero ancora più estremi».

Vaia 2

L’uragano Vaia ha schiantato a terra non meno di quattro milioni di metri cubi di alberi in Veneto, due in provincia di Trento, uno in quella di Bolzano e 0,8 in Friuli-Venezia Giulia. Una quantità di legname che supera del 24% il totale dei prelievi annui in tutta Italia. «La tragedia è che i boschi caduti non erano abbandonati ma foreste certificate, con piani di gestione e di silvicoltura naturalistica», dice Antonio Brunori, segretario generale di Pefc Italia, il sistema di certificazione per la gestione sostenibile delle foreste.

Un colpo durissimo per la filiera del legno. La mancanza di grandi segherie in Italia e i danni subiti a mezzi e strutture delle aziende boschive renderà difficili le attività di recupero. Il ministero delle Politiche agricole e forestali stima che il 30% dei 10 milioni di alberi abbattuti, soprattutto abeti rossi, è destinato a non essere recuperato e a diventare biomassa per la produzione di energie rinnovabili. Legno pregiato venduto di norma a circa 80 euro al metro cubo che verrà bruciato a 5 euro. Alla perdita di valore vanno aggiunti i costi ambientali, quelli legati allo sgombero delle aree e al ripristino delle infrastrutture. «La tempesta ha distrutto l’equilibrio economico della montagna, fatto anche dai pascoli e dal turismo – riprende Antonio Brunori – In queste prime settimane si è pensato alle strade e alle reti elettriche e telefoniche per mettere in sicurezza la vita delle persone. Poi si deve rimuovere il legname entro la prossima estate per evitare l’attacco del bostrico tipografo, un coleottero che si ciba di legno».

 

Legno solidale

All’orizzonte c’è anche il rischio di operazioni speculative dovute al crollo repentino del prezzo del legname. «Per evitarle, il Pefc sta predisponendo dei contratti di filiera solidale, in cui acquirenti e venditori concordano un prezzo giusto, senza ricarichi eccessivi ma che non sia neanche quello di prima della tempesta – riprende Brunori – Il Pefc si farà garante, i proventi resteranno sul territorio, e chiunque aderirà a contratti di questo tipo avrà il logo di “legno solidale”. L’obiettivo è avere la minor perdita possibile per tutta la comunità forestale». La provincia di Trento, ad esempio, ha annunciato che è possibile restituire le caparre di contratti stipulati prima della tempesta, mentre il consorzio friulano Legno servizi ha indetto un’asta in cui il 5% degli utili andranno alla ricostituzione della filiera per chi non ha partecipato all’asta. La solidarietà, insomma, è la prima risposta che i territori hanno dato per far fronte all’emergenza.

Non basta, purtroppo. Per dare un futuro ai boschi c’è bisogno soprattutto di scelte nuove. «In passato danni di questo tipo, come quelli causati dalla Prima guerra mondiale, sono stati risolti coltivando prevalentemente l’abete rosso, facile da coltivare e capace di produrre valore», spiega il professor Davide Pettenella del dipartimento Territorio e sistemi agro-forestali dell’università di Padova. Il risultato è stato la crescita di boschi tutti della stessa età e della stessa altezza, quindi più fragili. «Oggi dobbiamo ragionare nella logica dei cambiamenti climatici – continua Pettenella – Bisogna ricreare boschi con abete bianco e faggio, più altre specie di arricchimento come betulle, aceri, frassini, sorbi. Tutte specie che c’erano prima della Grande guerra, soprattutto nelle aree più naturali dove si faceva meno silvicoltura. In questo modo avremo boschi più resilienti».

 

Segnali ignorati

L’uragano Vaia, questo è il senso del ragionamento, deve fare scuola. Come è successo già nel 1999 con l’uragano Lothar, che ha provocato danni per ben 210 milioni di metri cubi alle foreste di Austria, Germania, Svizzera e Francia. «Dopo Lothar ci siamo illusi che problemi come questi non avrebbero toccato il versante meridionale delle Alpi e abbiamo vissuto nell’incoscienza che il fenomeno non ci travolgesse – aggiunge Pettenella – Gli incendi eccezionali del 2017, con 10.000 ettari di boschi bruciati in Piemonte, dovevano essere un campanello d’allarme sugli effetti dei venti caldi e dei cambiamenti climatici anche da noi. Avremmo potuto preparare piani di emergenza, decidere quali misure adottare per mobilitare le ditte boschive in casi come questo, identificare le aree in cui depositare il legname». Tutti problemi che ora l’Italia deve adesso affrontare in fretta. «Oggi paghiamo il fatto di aver smontato nei decenni passati la nostra filiera forestale. Lo abbiamo fatto più o meno consapevolmente e adesso siamo impreparati – commenta Marco Marchetti, professore di Bioscienze e territorio all’università del Molise – Il Testo unico forestale approvato nella primavera scorsa riattiva le filiere, puntando innanzitutto alla conservazione e alla gestione sostenibile. È importantissimo che gli strumenti previsti, come la strategia forestale nazionale, i decreti attuativi e le intese con le Regioni, prendano piede al più presto».

Non mancano gli strumenti e neppure gli esempi, come quelli raccontati da Legambiente nella prima edizione del Forum sulla bioeconomia delle foreste (vedi box in queste pagine). «I Paesi colpiti da Lothar, dopo aver subito danni ben maggiori di quelli avuti nel Nordest – dichiara Antonio Nicoletti, responsabile aree protette di Legambiente – hanno imparato l’importanza di rafforzare il ruolo delle foreste nei piani di mitigazione e adattamento al clima, a predisporre azioni di prevenzione, migliorando la stabilità dei boschi e implementando in particolare la biodiversità, e a organizzare un sistema di intervento che metta in atto misure per tamponare la prima emergenza. In Italia – conclude Nicoletti – serve un nuovo progetto per le foreste condiviso tra i soggetti pubblici e privati, con risorse economiche che garantiscano un’adeguata strategia per la tutela della biodiversità». Prima che un altro evento estremo si abbatta sui nostri boschi.

Le cifre

11,8 milioni
di ettari di foreste in Italia

1,6%
del Pil generato dalla filiera del legno

300mila
persone occupate nel settore

9.200
incendi di media all’anno

Questo articolo è tratto dalla versione online de La Nuova Ecologia